Inps: finalità truffaldina nel rapporto di lavoro tra familiari.
Sarà vero?

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Business man che tra le mani protegge la famiglia

Il rapporto di lavoro subordinato tra coniugi, così come nel caso di rapporti tra parenti e affini fino al sesto grado (fratelli, sorelle, genitori ecc.) è sempre stato oggetto di disconoscimento dall’INPS in maniera automatica. Tale orientamento trova origine dalla circolare INPS n. 179 del 1989 che prevedeva appunto che non potesse configurarsi, secondo l’Istituto, un legittimo vincolo di subordinazione tra familiari.
In realtà l’INPS ritiene che i rapporti di lavoro subordinati tra familiari abbiano una finalità “truffaldina” di precostituire posizioni previdenziali e di ottenere indebite prestazioni assistenziali (maternità, malattia, cassa integrazione).
L’Istituto sottesa la sua finalità, sostiene l’attività lavorativa resa da un familiare, sia da considerare sempre a titolo gratuito, in quanto le prestazioni lavorative nell’ambito familiare sono motivate da “affectionis vel benevolentiae causa”, ovvero da ragioni di affetto e benevolenza… Proprio per il legame che unisce i familiari, l’INPS ha sempre avuto motivo di pensare che venisse meno il potere direttivo esercitato dal “Datore di lavoro” (marito vs moglie vs figlia vs figlio..) laddove l’emanazione di ordini specifici, l’esercizio di un assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione della prestazione perdano i loro connotati specifici tra parenti….


Nuovi orientamenti ai rapporti di lavoro tra familiari


Tuttavia, nel tempo si è affermato un differente orientamento grazie all’intervento del Ministero del Lavoro e della giurisprudenza, a cui man mano si è allineato, almeno formalmente, anche l’INPS con il messaggio n. 7068 del 2015. In pratica le istruzioni operative del Ministero e dell’INPS sottolineano la necessità di accurati controlli anche laddove tra i titolari e i dipendenti vi sia un rapporto di parentela, affinità o convivenza. Spetterà all’INPS provare la non genuinità del rapporto di lavoro, che legittimamente può essere a titolo oneroso, dovendo l’Istituto analizzare con maggior cura ogni singolo caso e non necessariamente ricondurre l’attività lavorativa svolta tra parenti ad una collaborazione tipicamente “familiare”. Quindi la prova della subordinazione o della gratuità dell’attività deve essere data dall’INPS che, in sede ispettiva, deve operare meticolosamente e dare opportuna motivazione in caso di disconoscimento del lavoro dipendente.


Conclusioni

Se è vero che l’onere della prova spetta a chi intende farla valere (l’INPS) non significa che la regola valga in ugual misura per tutti. I criteri della subordinazione sono sicuramente più difficili da sostenere nei rapporti instaurati nell’ambito delle imprese individuali, delle società di persone e delle attività non rientranti nel concetto di impresa in senso stretto (ad es. gli studi professionali). Di contro maggiore applicazione possono avere nei confronti delle società di capitali, salve particolari situazioni da valutare di volta in volta, in quanto la figura del Datore di lavoro si identifica nella società e non nella persona degli amministratori. Per tanto laddove sussistano dei rapporti di lavoro subordinato tra familiari è bene individuare in modo inequivocabile quei criteri che identificano la subordinazione in senso stretto, come ad esempio l’osservanza di un orario rigido e coincidente con l’apertura dell’attività lavorativa, la corresponsione di un compenso a cadenze fisse nella logica del “corrispettivo della prestazione” e il deliberato ed intenzionale avvalersi da parte del titolare della prestazione subordinata resa dal “familiare”.


Collaborazione “occasionale” in ambito familiare

Un discorso a parte merita la collaborazione occasionale all’interno dell’impresa da parte di familiari già titolari di altro rapporto di lavoro ovvero pensionati. Sul punto, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con lettera circolare prot. n. 10478 del 10 giugno 2013, ha posto l’accento sull’elemento dell’occasionalità, nel limite di 90 giornate o 720 ore annue, quale non sistematicità e stabilità dei compiti espletati, per individuare un elemento risolutivo al fine del corretto inquadramento della prestazione resa.
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